Alzheimer: la ricerca va avanti (anche dopo l’addio di Pfizer)

24 Febbraio 2018

Di recente Pfizer, il più grande gruppo farmaceutico al mondo, ha deciso di abbandonare le sperimentazioni su possibili farmaci per l’Alzheimer legati al metabolismo dell’amiloide, una sostanza di natura proteica che sino a poco tempo fa era ritenuta la causa scatenante della malattia, mentre oggi si ritiene che vada a depositarsi nel cervello solo come conseguenza secondaria di gravi patologie croniche, tra le quali le demenze e appunto l’Alzheimer.

La scelta di Pfizer era stata peraltro preceduta da quelle di altre importanti marchi farmaceutici, che nell’arco degli ultimi due anni e dopo investimenti di decine di milioni di euro si sono a loro volta defilate rispetto alle sperimentazioni di farmaci contrastanti la malattia di Alzheimer, ammettendo più o meno esplicitamente che sulle cause di questa malattia non si ha ancora alcuna vera certezza, così come non vi è alcuna sicurezza di arrivare a individuare una terapia nel breve periodo. 

La via indipendente di Airalzh 

I malati e i loro cari sono dunque ora abbandonati a loro stessi? Per fortuna no, perché la medicina non ha comunque gettato la spugna e gli studi proseguono su altri fronti. In Italia, si va per esempio avanti anche su quello della ricerca indipendente, cavallo di battaglia del professor Sandro Sorbi, ordinario del Dipartimento di Neuroscienze, Area del Farmaco e Salute del Bambino, dell’Università di Firenze e presidente dell'onlus Airalzh: “Ritenendo che per la ricerca contro le demenze, di cui l’Alzheimer è la più comune, non fosse possibile né pensabile affidarsi alla sola attività delle industrie del farmaco, nel 2014 abbiamo fatto nascere Airalzh selezionando giovani scienziati indipendenti che nelle Università e nei Centri specializzati si dedicano alla ricerca di base, alla diagnostica precoce, alla valutazione di trattamenti e interventi plurimi, non solo farmacologici, per cercare di saperne sempre di più sull’Alzheimer e di trovare soluzioni che possano almeno migliorare la qualità della vita dei malati e dei loro familiari”. 

Per fronteggiare i costi dell’attività di ricerca e in presenza di finanziamenti pubblici sempre più ridotti, Airalzh si è rivolta ai privati, assicurandosi tra l’altro un importante contributo triennale di Coop. Il gigante della grande distribuzione organizzata concorre infatti a sostenere 25 giovani studiosi che da due anni stanno lavorando in diverse direzioni. “Passi avanti significativi”, certifica il professor Sandro Sorbi, “si sono già avuti nella diagnostica precoce dell’Alzheimer grazie all’uso combinato della elettroencefalografia e della risonanza magnetica, ma anche con la misurazione attraverso tecnologiche strumentazioni delle dimensioni dei solchi cerebrali, quelle increspature della superficie del cervello che la fanno assomigliare a una noce e che nei pazienti con demenza risultano precocemente allargati in punti specifici. Per la precisione, questo allargamento dei solchi è una conseguenza dell’atrofia, ovvero riduzione del tessuto, che si verifica in zone diverse del cervello a seconda del tipo di demenza e lo studio è ancora in corso proprio per riuscire a capire in quali zone aumentano di dimensione i solchi nel cervello nei pazienti che sono stati colpiti da Alzheimer”.

Sotto indagine anche una proteina

Il gruppo di ricercatori indipendenti di Airalzh sta poi lavorando anche sulla proteina Tau, considerata potenzialmente in grado di modificare i processi di memoria e apprendimento che vengono alterati nella malattia di Alzheimer e che potrebbe quindi essere un futuro, nuovo bersaglio per i farmaci al posto dell’orami accantonata amiloide. “In particolare, il nostro gruppo di studio sta cercando la presenza di questa proteina anche nella saliva dei pazienti con Alzheimer: se si arrivasse a determinarla, si potrebbe infatti mettere a punto un test affidabile e di facile esecuzione per consentire una diagnosi precoce, che al momento rimane l’arma più efficace di cui dispone la medicina”. 

Da parte dei ricercatori è poi anche stata individuata una correlazione tra le alterazioni della respirazione durante il sonno e la compromissione della memoria. “E’ stato visto che i soggetti sani che soffrono di apnee notturne”, racconta ancora il professor Sorbi, “presentano deficit di memoria in misura maggiore di chi non le accusa. Inoltre, si è constatato che sempre le apnee notturne sono più frequenti nei pazienti con Alzheimer rispetto alla popolazione sana della stessa fascia di età”. Si tratta quindi di un’altra “pista” da seguire, con l’obiettivo anche solo di trovare il modo di contrastare almeno in parte la malattia migliorando magari la qualità del sonno dei pazienti.

Le terapie non farmacologiche

Sempre nel segno di una diagnosi precoce o dell’individuazione di trattamenti che permettano almeno di rallentare lo sviluppo della malattia si inserisce la sperimentazione di terapie non farmacologiche come la Stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la Terapia di stimolazione cognitiva (CST). 

“La Stimolazione Magnetica Transcranica può servire a migliorare i sintomi nelle fasi iniziali di una demenza, ma può anche aiutare a capire quale sia il tipo di malattia che ha colpito la persona che sta perdendo la memoria”, illustra il professor Sorbi. “Viene effettuata grazie a una specie di casco che trasmette segnali magnetici che riescono a stimolare le aree del cervello senza  passaggio di corrente né alcuna sensazione di fastidio o dolore. Le sedute durano poco, dai 5 ai 10 minuti, e vengono ripetute più volte nel tempo per monitorare il progredire della situazione”.

La Terapia di stimolazione cognitiva opera invece sul versante psicologico della malattia: “L’obiettivo in questo caso è di stimolare il paziente con opportune terapie per salvaguardare il più possibile la capacità di usare e comprendere le parole in maniera pronta e flessibile, così come per cercare di contrastare quella perdita di interesse che la persona colpita da Alzheimer o da demenza finisce inevitabilmente per avere nei confronti dei familiari e dei tanti piccoli eventi quotidiani. E’ questo un aspetto affettivo a tutt’oggi poco considerato, ma che risulta fondamentale per la qualità della vita tanto del malato quanto dei caregiver”.

I fattori collegati al Dna

Sotto la lente dei ricercatori ci sono infine le trasformazioni del Dna, dette “modificazioni epigenetiche”, indotte nell’organismo dall’esposizione ad agenti esterni. “L’epigenetica è una nuova, rivoluzionaria strategia di ricerca che può aprire la strada a interessanti prospettive scientifiche e soprattutto terapeutiche, perché permette di indagare come eventi non genetici (ad esempio stili di vita, alimentazione e sostanze con cui veniamo a contatto) possano modificare l’espressione dei nostri geni”, precisa il professor Sandro Sorbi. “A oggi i metalli, i solventi, i pesticidi e i traumi cranici sono ritenuti possibili fattori di rischio, mentre altri – le sostanze antiossidanti, la dieta mediterranea e il consumo di alimenti ricchi di acidi grassi Omega-3 – sembrano svolgere un ruolo protettivo. Non ci sono ancora certezze, ma certo c’è la determinazione a continuare a indagare per individuare qualsiasi possibile correlazione con l’Alzheimer: ogni scoperta, anche la più piccola, potrebbe rivelarsi alla lunga determinante per saperne di più su questa malattia”.
 

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