
Carla Teresita, conosciuta con il soprannome di Tita, condivide la sua storia di vita in una cascina a Siziano, in provincia di Pavia e ospite presso la Residenza Villa Flavia.
L’infanzia e la scoperta del proprio nome
Fin da piccola, Carla è stata chiamata Tita dalla madre, un’abbreviazione che ha reso più rapido il suo nome di battesimo. La consapevolezza del suo vero nome è arrivata solo al primo giorno di scuola, quando l’insegnante ha fatto l’appello chiamandola “Carla”, un nome che inizialmente non riconosceva come proprio.
La vita in cascina dopo il matrimonio
Dopo essersi sposata, Carla è andata a vivere nella cascina della famiglia del marito a Siziano. Si trattava di una grande proprietà in cui abitavano più nuclei familiari, una condizione comune all’epoca. La famiglia del marito era composta da sette fratelli, tutti impegnati nel settore agricolo. Per gestire meglio gli spazi, il suocero acquistò un’altra cascina, permettendo così a tre dei figli di trasferirsi altrove.
Solidarietà e accoglienza
La suocera di Carla, Angela, era una donna molto religiosa e impegnata nell’aiutare chi era in difficoltà. In cascina, alcune persone bisognose trovavano accoglienza e venivano ospitate nella stalla, dove potevano dormire al riparo. Angela provvedeva a offrire loro cibo e vestiti, facendo in modo che gli indumenti dismessi dei figli potessero essere donati senza che nessuno se ne accorgesse. Oltre a questo, contribuiva economicamente in maniera discreta.
La gestione dell’acqua nelle risaie
Nella cascina era presente una figura incaricata di gestire la distribuzione dell’acqua, risorsa essenziale per la coltivazione del riso. L’accesso all’acqua, proveniente da un fosso di proprietà privata, era regolato da un pagamento che avveniva in parte come acconto e in parte a fine stagione. Il “camparo”, responsabile della regolazione del flusso d’acqua, viveva nella cascina e aveva il compito di garantire che le risaie ricevessero la quantità necessaria per evitare danni alla coltivazione.
Le mondine e il loro lavoro
Nel periodo della semina del riso, a maggio, arrivavano le mondine dal Piemonte, generalmente una trentina, per lavorare nei campi. Venivano trasportate in carro alla stazione e alloggiate nel granaio, dove venivano sistemati i letti. Una cuoca si occupava dei pasti, garantendo loro un’alimentazione adeguata per affrontare il duro lavoro giornaliero. Oltre al salario giornaliero, le mondine ricevevano anche un chilo di riso al giorno.
Le regole della cascina prevedevano che alle 22 il cancello venisse chiuso e la cuoca controllava che tutte fossero a letto, affinché fossero pronte per svegliarsi alle 4 del mattino e iniziare la giornata nei campi. Dopo il lavoro, per ripulirsi dal fango, le lavoratrici si lavavano in un punto riparato dietro la stalla, utilizzando l’acqua destinata agli animali.

Redazione Peranziani.it