Le demenze sono malattie neurodegenerative dell’encefalo, che insorgono solitamente in età avanzata (anche se esistono casi di insorgenza precoce), determinando un progressivo declino delle facoltà cognitive di una persona. Il tipo più conosciuto di demenza è la malattia Alzheimer, ma ne esistono di diversi tipi come: la demenza vascolare, la demenza con corpi di Lewy e la demenza frontotemporale. Le cause non sono ancora completamente note e, purtroppo, al momento non esistono terapie in grado di arrestarne la progressione.
I sintomi più comuni riguardano la sfera cognitiva e motoria e la diagnosi avviene sulla base di accertamenti di tipo neurologico e neuropsicologico.
Non esistono, come detto, trattamenti che possano fermare la progressione della malattia ma alcune terapie possono rallentarne il decorso. Ad oggi trovano indicazione alcuni farmaci, integratori alimentari, la fisioterapia, la terapia comportamentale, la terapia occupazionale, la terapia del linguaggio e la stimolazione cognitiva.
Da alcuni anni si stanno studiando anche le tecniche di neuromodulazione non invasiva, che apparentemente possono contribuire alla gestione degli aspetti cognitivi. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Beatrice Casoni Direttore Sanitario presso NeuroCare Clinic Bologna e Medico Psichiatra presso casa di Cura Quisisana Ferrara.
Che cos’è la neuromodulazione?
«Il Prof. Simone Rossi di Siena, neuroscienziato fra i massimi esperti internazionali in questo campo, scrive nel suo libro: “Il Cervello Elettrico”: “E’ tutta questione di variazioni istantanee di qualche decina di millivolt. Un’inezia di corrente, migliaia di volte meno nei confronti della scossa di una lampadina. I nostri neuroni decidono se muovere una mano, localizzare un oggetto, provare dolore, instaurare una relazione amorosa, solo attraverso un’improvvisa variazione del loro stato elettrico……Immaginatevi il cervello come un’orchestra (di neuroni) che suonano (comunicano) all’unisono. Quando qualche rete neuronale “suona” fuori fase, gli effetti si sentono».
La neuromodulazione aiuta la rete neurale fuori fase, inducendo la neuroplasticità, a ritrovare l’equilibrio per “suonare” all’unisono.
Tra le metodiche di neuromodulazione cosiddette non invasive (perché possono essere applicate dall’esterno, senza necessità di interventi neurochirurgici) la più conosciuta è sicuramente la stimolazione magnetica transcranica: un trattamento non invasivo e non doloroso che genera un campo magnetico attraverso una bobina applicata sulla testa del paziente. Attraversando la scatola cranica il campo magnetico si trasforma in un campo elettrico che stimola la riattivazione di connessioni tra i neuroni favorendo lo scambio di messaggi tra le varie aree cerebrali influenzando le diverse funzioni.
«La stimolazione magnetica transcranica – prosegue la dott.ssa Casoni – viene utilizzata, in ambito clinico psichiatrico e neurologico, per il trattamento di diverse patologie come la Depressione Maggiore resistente ai farmaci, il disturbo ossessivo compulsivo, il dolore cronico neuropatico e per la riabilitazione nelle afasie e nei deficit motori post ictus.
Sulla base dell’esperienza clinica la stimolazione di una specifica area cerebrale associata alla riabilitazione cognitiva viene utilizzata con buoni risultati in pazienti colpiti da M. di Alzheimer in fase iniziale.
La riabilitazione cognitiva consiste nella pratica ripetuta di attività ideate e strutturate al fine di migliorare specifiche funzioni cognitive come la memoria, l’attenzione, le funzioni esecutive».
Uno studio di Koch e collaboratori pubblicato su NeuroImage nel 2018 ha rivelato un transitorio miglioramento del 20 percento della memoria in un gruppo di pazienti trattati con la stimolazione magnetica transcranica.
Un altro trattamento di neuromodulazione, non invasivo e non doloroso che può essere utilizzato nel declino cognitivo è la stimolazione transcranica a corrente continua (tDCS): una corrente continua molto debole, quasi impercettibile, agisce sul cervello attraverso due elettrodi applicati sulla testa mentre il paziente viene sottoposto alla riabilitazione cognitiva.
«Nonostante diversi studi promettenti – chiude la dott.ssa Casoni – e l’esperienza clinica di numerosi professionisti al momento la neuromodulazione nelle demenze può essere utilizzata a scopi di ricerca o in ambito clinico in via sperimentale, ma le premesse sembrano buone e ci si augura che in un futuro prossimo possano diventare un’arma in più per contrastare e forse rallentare il declino cognitivo».
Redazione Peranziani.it