La sindrome di Burden, nota anche come sindrome del caregiver, è una patologia poco conosciuta, che tende pertanto a passare spesso inosservata da parte dei diretti interessati e di chi sta loro vicino. “A renderla pericolosa è proprio l’ignoto che la circonda”, avverte la dottoressa Maria Monica Ratti, psicologa e psicoterapeuta, consulente dell’IRCCS San Raffaele di Milano. “E per certi versi proprio parlare di questa patologia è uno dei primi passi per prevenire questo disagio psicologico innescata dal fatto di essere impegnati 24 ore su 24 nell’assistenza di un proprio caro”.
Un peso troppo grande
La sindrome di Burden viene spesso associata alla sindrome da burnout, che colpisce gli operatori socio-sanitari. “Tuttavia, se questi ultimi subiscono le pressioni e lo stress del dolore dei propri pazienti e arrivano, in un momento di particolare stanchezza, a un burn out, ovvero a un’esplosione e ad un esaurimento delle proprie risorse in ambito professionale, i caregiver famigliari vivono una situazione totalizzante perché sono coinvolti a tempo pieno sia fisicamente sia psicologicamente”, sottolinea la dottoressa Maria Monica Ratti. La sindrome di Burden rappresenta quindi un vero e proprio logoramento psicologico dovuto al costante sostegno appunto di un burden, termine inglese utilizzato per designare un pesante carico. In tanti casi, se non tutti, ad aggravare le cose c’è poi il fatto che l’abbandonare anche solo temporaneamente il proprio ruolo di caregiver è percepito come un atto di negligenza e di indifferenza, che genera un fortissimo senso di colpa. Ed ecco così che la persona interessata va inevitabilmente incontro a una forte alienazione dalla società circostante, finendo per vivere solo in funzione del familiare malato”.
I sintomi da riconoscere
Già di per sé poco nota, la sindrome di Burden presenta anche sintomi che assai di frequente vengono sottovalutati perché confusi con un normale e fisiologico periodo di stanchezza e stress psico-fisico. “I segnali da rilevare sono uno stato d’ansia spesso collegato a insonnia e una diminuzione delle difese immunitarie che porta a un calo della salute del caregiver, con il manifestarsi di disturbi di vario grado, che spesso vengono sottostimati proprio per continuare a occuparsi del proprio caro. Il caregiver pensa insomma che si tratta solo di un momento di stanchezza passeggero, mentre invece può trattarsi del segnale con cui l’organismo sta lanciando il primo allarme per un ben più serio disagio psicologico”.
A rendere difficile il riconoscimento del problema, e quindi anche il cercare una soluzione, è quindi ancora una volta l’intreccio di dedizione assoluta alla persona cara e di sensi di colpa qualora non si riesca a sostenere interamente il proprio impegno. “Per questo motivo è bene che familiari e amici insistano con il caregiver sull’importanza di curarsi anche della propria salute, proprio per riuscire a garantire la migliore assistenza possibile al proprio caro”, suggerisce la psicologa. “Se si ha il sospetto che una persona a noi vicina sia vittima della sindrome di Burden, solo facendo leva su questo aspetto si potrà portarla a percepire la cura di sé come un fattore da promuovere e non come un comportamento da stigmatizzare”.
Le soluzioni da mettere in atto
Una volta individuato il disagio del caregiver, non sempre è necessario affrontare un vero e proprio percorso di cura. “Ancora una volta è fondamentale individuare per tempo il problema, perché in fase iniziale i metodi per evitarne il rapido progredire sono gli stessi adottabili come prevenzione”, afferma la dottoressa Maria Monica Ratti. “Innanzitutto, è cruciale per il caregiver sviluppare una dimensione di socialità per evadere dall’alienazione che consegue alla sua condizione di badante a tempo pieno. A tale fine è possibile beneficiare dei gruppi di confronto che hanno spesso una sede di ritrovo presso associazioni o Rsa e che favoriscono una condivisione della propria esperienza. Fatto questo primo passo, risulta poi sicuramente utile un supporto psicologico per aiutare la persona a divenire cosciente della necessità di ritagliarsi degli spazi di evasione, spezzando la simbiosi instauratasi con il familiare assistito. L’obiettivo terapeutico è quello di condurre una sorta di rieducazione del caregiver per modificarne lo stile di vita e metterlo nelle condizioni di non sviluppare più disturbi legati a un sovraccarico di stress e a una forma di alienazione. Solo nei casi più problematici può infine essere necessario il ricorso a una terapia farmacologica per agire sugli stati d’ansia”.
Redazione Peranziani.it